Le ragioni del successo imprenditoriale di Bonaldi: visione, determinazione, reinvestimento continuo e... (II)
18/05/2018

Le ragioni del successo imprenditoriale di Bonaldi: visione, determinazione, reinvestimento continuo e... (II)

Tratto dal libro "Essere già oltre il domani" caratteri e dinamiche del successo imprenditoriale di Lorenzo Bonaldi

Con il 2000, Lorenzo Bonaldi compiva il suo 65° anno da imprenditore.
Un traguardo non comune, un percorso a volte difficile, ma sempre contraddistinto da una tenacia di ferro e da una visione migliorativa dell’azienda.

E a festeggiare il fondatore arrivavano il record assoluto di vendite (5.704 veicoli) e un utile d’esercizio di quasi un miliardo e 400 milioni di lire. Un risultato sudato, ottenuto stando continuamente alla stanga, mentre già si pensava al futuro prossimo.

La relazione che accompagna il bilancio 2000, oltre ad analizzare le specificità del mercato, dell’offerta e della domanda, sottolineava come fossero indispensabili «interventi di miglioramento con una nuova officina di riparazione Audi, un nuovo salone esposizione Porsche, in previsione del rifacimento del salone Volkswagen secondo il concetto “di piazza”».

Tutto questo è stato fatto. E infatti, una volta terminata la crisi del settore nel 1997, il reddito d’esercizio della Bonaldi è quasi raddoppiato, raggiungendo il proprio apice nel 1999.

Un semplice foglio diviso in due: a sinistra le domande, a destra le risposte. Walter Walcher lo ricorda bene. Ogni mercoledì Lorenzo Bonaldi arrivava in Autogerma, a Verona, per pagare le auto e capire come tirava il vento. Chiedeva, s’informava, visitava i reparti e poi ripartiva per Bergamo.

«Per noi era la concessionaria di riferimento e quindi i Bonaldi erano i primi ad essere informati sulle novità e sui programmi – ricorda Kuen –, ma al tempo stesso erano anche una fonte molto importante per noi. Grazie a lui e alla moglie Carla, infatti, riuscivamo a leggere meglio il mercato dell’auto, i desideri della clientela e a capire i problemi dei nostri partner commerciali».

Il viaggio settimanale nella città scaligera rifletteva anche un certo loro modo di essere. Per Lorenzo e Carla il rapporto personale era imprescindibile, come lo era anche il valore di una stretta di mano rispetto ad una pila di documenti firmati.

L’andare a Verona diventava quindi una maniera per rinsaldare un rapporto che non era solo d’affari.

«Lorenzo è stato un imprenditore – racconta ancora Walcher – con una visione molto ampia e in grado di guardare lontano, altrimenti non avrebbe fatto quello che ha fatto. Ai tempi del grande successo della Golf diesel, solo per fare un esempio, gli altri concessionari insistevano per avere più macchine da vendere. 
I signori Bonaldi mai, capivano che non era possibile averne di più e non ne chiedevano. Erano ben diversi da quelli che cercavano l’affare immediato. […] Non si sono mai lamentati, non hanno mai chiesto niente di particolare se non il giusto, perché davvero erano concessionari d’eccellenza. Per noi di Autogerma, dei veri alleati».
 
Di Lorenzo colpivano professionalità, trasparenza e affidabilità. 

«Tra noi – dicono Walcher e Kuen – si era creato un rapporto di massima e reciproca stima e fiducia che con pochi si poteva avere. Non parlo del singolo episodio, ma di anni e anni». 

«Un alleato coraggioso e con un’incrollabile fiducia nel futuro. «Mai sentito parole preoccupate da parte sua – puntualizza Walcher – e in questo era veramente un faro per tutti». […] per creare un’impresa solida è necessario essere il più possibile indipendenti dal lato economico, le risorse vanno trovate all’interno e non andando in banca. Bonaldi la pensava esattamente come me e il fondatore di Autogerma, Gumpert. Solo così si evitava la fine di certi nostri concessionari».

Continuare a reinvestire nell’azienda è ancora oggi un tratto distintivo, il blasone di famiglia, ed è la voce di Simona (entrata nell’azienda di famiglia nel gennaio ’90, fresca di laurea in Economia) a ribadirlo:

«La forza trasmessa dai miei genitori è stata tale che io posso andare a Verona e prendere un pacchetto di auto, perché sono in grado di pagarle subito e questo offre un vantaggio enorme rispetto a chiunque altro. Quello di reinvestire era uno schema concettuale dei miei, che si traduceva in una piattaforma programmatica e penso soltanto all’ampliamento della sede: in questa azienda sino a fine anni ’90 non c’era il concetto della distribuzione del dividendo e ai miei andava certo il necessario per una vita normalmente agiata, ma niente di più».

Chi si ricorda di un uomo molto determinato è Gianfranco Scarabel, legato a Lorenzo da un rapporto professionale e di amicizia.

«Mi piaceva per la sua immediatezza, perché diceva quel che pensava – ricorda l’imprenditore trevigiano –. Avevamo la stessa idea di partnership e qualche volta insieme abbiamo criticato le decisioni del management. Un bellissimo rapporto, il nostro. E quando diventava «troppo sanguigno», interveniva la moglie «un vero ministro degli Esteri», sorride Scarabel: «Lorenzo non era assolutamente un uomo freddo. L’ho sempre trovato allegro, spontaneo e trasparente. Aveva un carattere forte, volitivo, era molto puntiglioso e questo nel nostro lavoro è sempre servito […]». 
 
«Parlava poco durante le riunioni dei concessionari del marchio Volkswagen. «Bonaldi – sottolinea Walcher – aveva una grande sicurezza e andava avanti per la sua strada. Nella nostra organizzazione poche persone erano come lui, forse solo due o tre».
 
Una sicurezza nella guida dei propri affari generata da un grande intuito commerciale, che gli permetteva di intuire il futuro e in questo modo era sempre in anticipo sui tempi. Gli esempi non mancano, basta ricordare che quando ancora vendeva Moto Guzzi a centinaia e centinaia aveva già capito che il mercato si stava aprendo in un’altra direzione, ossia verso l’auto.

«Non ne sbagliava una – conferma il figlio Giuseppe – e se diceva qualcosa, aveva ragione. Non so il perché, ma aveva ragione».

«Mio suocero – sempre Brusa – osservava, assorbiva tutto e quando qualcosa non gli quadrava andava sino in fondo. In un’occasione, negli anni ’60, Autogerma non gli aveva dato soddisfazione e lui aveva preso il treno per andare in fabbrica a Wolfsburg. La cosa aveva fatto un po’ di scalpore, perché allora i due livelli – industria e importatore – erano assolutamente separati ed era impensabile che un concessionario andasse direttamente alla fonte. C’era l’importatore e il mondo finiva lì».

Dal punto di vista commerciale, Lorenzo nutriva grande fiducia in se stesso. Una delle sue citazioni preferite era: «Le società vanno bene dispari, ma tre soci sono già troppi». 

Non ha mai voluto che qualcuno esterno alla sua famiglia entrasse nella compagine sociale. Il processo decisionale partiva sempre da lui. Era lui che aveva l’idea e prima di procedere consultava e lasciava parlare tutti, ma in realtà aveva già deciso. Ultimo passo, ottenere il nullaosta dalla moglie, che di solito era più restia nel lanciarsi in nuove avventure.

In altre parole, Lorenzo era discretamente autonomo nella conduzione dell’azienda, nelle decisioni d’investimento e nel promuovere nuove iniziative. Gli piaceva, però, cercare più informazioni possibili, specie quando c’era da decidere qualcosa di nuovo o in meglio.

Ragionava in termini di crescita e, raggiunto un obiettivo, ne aveva già fissato un altro. Non bisognava mai stare fermi, la parola d’ordine era anticipare i tempi, cercando di andare nella direzione giusta.

La sua giornata tipo in azienda era scandita da ritmi rimasti immutati per decenni: il primo ad arrivare, poco prima delle 8, e tra gli ultimi ad andarsene. Il mercoledì a Verona, il giovedì a caccia e il sabato rigorosamente in concessionaria.

Aveva principi inderogabili, linee-guida sulle quali non ammetteva compromessi. La tensione sul lavoro, il peso della responsabilità verso l’azienda e i dipendenti li aveva nello sguardo, ma il carattere al dunque, nei momenti decisivi, si conciliava con il pragmatismo e con una vicinanza al vissuto dei suoi collaboratori, più reale che esibita.

«A quel punto iniziava la fase di recupero – sorride Brusa –, tornava sui suoi passi, e medicava la situazione: tutti avevano un gran rispetto e stima per lui». 

La sua filosofia, la tempra del condottiero, il suo modo di vedere le cose erano condivisi dalla stragrande maggioranza dei lavoratori della Bonaldi.

Il suo era un approccio al lavoro che applicava prima di tutto a se stesso: i suoi collaboratori lo sapevano e capivano. Aveva la capacità di far lavorare bene i propri dipendenti, partendo da un rigore propositivo. L’idea di dover essere sempre i migliori ha creato un vero spirito di appartenenza che ancora oggi viene riconosciuto e ammirato.

Una sensazione che ben conosce Evelino Rossoni: 

«Mi sono identificato con lo spirito aziendale e con la voglia di fare e d’impegnarsi, un’azienda che faceva da modello per tante altre concessionarie. Sono valori che in tanti abbiamo condiviso, anche perché il signor Bonaldi se c’era da darti una mano te la dava».

Lo “spirito aziendale”, i meccanismi di identificazione con le ragioni sociali dell’azienda e l’apporto della fidelizzazione sono stati e sono nelle corde di questa comunità del lavoro.

L’imprenditore ne era orgoglioso, affezionato a questa caratteristica, una ragione fondativa dell’azienda. Non amava relazioni professionali “mordi e fuggi”: puntava sul capitale umano per farlo crescere con la società, per lui contava la bandiera, il sentirsi parte di una realtà condivisa.

Ci sono schiere di dipendenti nati e cresciuti qui. Figure mitiche, oltre a quelle già citate, come l’indimenticata signora Angela, la prima impiegata negli anni ’60, persona di fiducia della signora Comana, responsabile della cassa unica di tutte le marche: è lei ad aver guidato i primi passi in azienda di Simona e ancora, nella sede, c’è una foto che la ritrae con Bonaldi.

«Pensando alle vicende imprenditoriali di mio padre – aggiunge Giuseppe – mi è chiara la sensazione di una progressione continua. In casa nostra era un evento naturale, mio papà non si è mai fermato, non si è mai seduto. Non lo faceva per tornaconto economico, aveva una forza che lo spingeva in avanti, una determinazione e una voglia di affermazione irrefrenabili».

«Si illuminava quando parlava della sua impresa – ricorda ancora una volta il genero – ma questo non era motivo sufficiente per ritenersi arrivato. È bene chiarire che per lui il guadagno non era fine a se stesso. Nel valore della ditta, analizzata nel suo complesso, era importante anche l’elemento affettivo. 
In tutta la sua carriera imprenditoriale non ha mai fatto un’operazione guardando puramente al guadagno. Sono sempre entrate in gioco componenti di altro tipo, che miravano a valorizzare l’impresa nella sua totalità. Una di queste era l’attenzione alla formazione del personale. Ancor oggi, nella piccola sala al pian terreno, si tengono i corsi di addestramento del personale e i seminari di perfezionamento».

«Da lui e dalla moglie – sottolinea Rossoni – ho imparato davvero a lavorare. Lui non era una persona facile, però in grado di trasmetterti molto. Ho appreso come si trattano le persone e che dare la propria parola è molto importante. Ricordo che, poco tempo dopo l’assunzione, il signor Bonaldi mi ha chiesto se potevo mettere in ordine le tante relazioni giornaliere dei venditori esterni. C’era un arretrato esagerato e mi ha promesso che se fossi riuscito a riordinarlo mi avrebbe dato 10 mila lire, e allora ne prendevo 20 mila al mese. Terminato il lavoro, mi ha dato il premio e solo sulla parola».

Lo stesso Brusa si ricorda degli insegnamenti ricevuti dal suocero:

«I primi anni ci muovevamo sempre insieme. Io ero l’apprendista e lui il maestro. In un’occasione mi disse: “Tu non parlare, adesso mi arrabbio e picchio i pugni sul tavolo. Tu non ti muovere, sennò rovini tutto”. Inutile dire che portò a casa il risultato voluto». 

«A volte – ha scritto Alessandra Pozzi – gli bastava un gesto, un cenno di mano, un tocco sulla spalla per riconfermare la sua fiducia, il suo affidarsi nuovamente a collaboratori senza i quali il suo lavoro sarebbe stato improduttivo. Sentì sempre la necessità del gioco di squadra, anche se a dirigere fu sempre lui».

«“Io sono già oltre il domani”, mi diceva spesso il signor Bonaldi». Gerolamo Calzi l’ha conosciuto da ragazzino ed è stato tra quelli che è andato a trovarlo nell’ultima parte della sua vita. Ha passato quasi tutta la sua carriera lavorativa con il signor Lorenzo e dice che può solo ringraziarlo per l’opportunità che gli ha dato:

«Era di una certa severità, ma schietto. Una volta, quando ero già capo officina, gli ho detto: “Mi scusi, devo andare, devo preparare tutto per domani perché arriva gente”. E lui mi ha risposto: “Guarda che quando entrano da quella porta là, devono chiedere prima il permesso, perché qui il titolare sono io».

«Non stento a crederlo – gli fa eco Rosa Maria Bonaldi –. Mio padre incuteva rispetto ed era trasparente: aveva solo una parola e quella valeva. Ai clienti questo piaceva, ne apprezzavano l’onestà e l’integrità».

Capitava di rado che si lasciasse andare a qualche forma di entusiasmo, «ma capivi che era contento dal modo in cui ti porgeva le domande o ti chiedeva le cose». L’officina era il primo posto che visitava.

«Gli piaceva avere tutto sotto controllo», ricorda Giuseppe Busetti, che tra i suoi incarichi al mattino doveva prendere nota dei chilometri fatti dalle vetture utilizzate dai produttori per coprire la zona di competenza. 

Anche la scrivania rifletteva la risaputa tendenza all’ordine del titolare: grande, di legno scuro, completamente sommersa da bigliettini scritti con la sua particolare calligrafia. Erano appunti sull’azienda, sul mercato, sulle cose da fare. Li passava in rassegna e poi  chiamava l’uno o l’altro dipendente.

«Mio padre – sottolinea Giuseppe – era un vero imprenditore, costantemente alla ricerca del meglio e per questo qualsiasi spunto era importante». 
 
«Il lavoro – interviene la sorella Simona – era la sua vita e ha sempre vissuto la sua attività al mille per mille, trasmettendoci questa sensibilità».

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