Manca solo lo spazio. La sede di via Maj non basta più.
17/04/2018

Manca solo lo spazio. La sede di via Maj non basta più.

Tratto dal libro "Essere già oltre il domani" caratteri e dinamiche del successo imprenditoriale di Lorenzo Bonaldi

Manca solo lo spazio. La sede di via Maj non basta più. Lorenzo inizia a cercare dove realizzarne una più ampia. L’ipotesi Molino Previtali cade quasi subito e, sempre nel ’62, si presenta la possibilità di comprare un grande terreno dalle parti di Redona vicino al cimitero. L’acquisto si conclude nel ’63 e il giovane architetto Sergio Invernizzi avvia i lavori di costruzione. Adesso lo chiamano il “rondò Bonaldi”, ma ai tempi è pura campagna o quasi. 

«C’era la stradina che andava a Santa Caterina – ricorda Calzi –, un’altra che andava a Gorle e una terza per la Valle Seriana. Basta, non c’era nient’altro».

«Mi ha fatto vedere il terreno – racconta Franz Kuen – e gli ho chiesto “ma è enorme, cosa fate qui?”. Il signor Bonaldi non ha fatto una piega: mi ha mostrato progetti, idee, eccetera. Per quei tempi, per i volumi di allora, sembrava una cosa immensa».

Del resto, perché dubitare del futuro? Le progressive riduzioni doganali e la liberalizzazione delle importazioni avevano portato ad un sensibile aumento delle immatricolazioni di vetture straniere. La parte del leone l’aveva avuta proprio la 1200, passata dalle 5.961 vetture immatricolate nel 1961 alle quasi 20 mila dell’anno seguente e la Volkswagen aveva raggiunto, primo marchio straniero, la quota del 3.57% in un mercato dominato con il 66,42% dalla Fiat. 

Il Maggiolino piaceva di più principalmente agli impiegati (25%) e agli studenti (12%) seguiti da medici, rappresentanti e commercianti. Tutte categorie, concludeva ancora «Quattroruote», che chiedevano un’auto con una modesta spesa di esercizio e doti di solidità e di durata. Quattro i fattori che ricorrevano nell’acquisto: robustezza e durata, qualità tecniche e meccaniche, fiducia nel nome, convenienza economica. Il primo pregio era la robustezza (35%), seguita dalla sicurezza (6,4%) e dal raffreddamento ad aria (6%). I principali difetti erano il bagagliaio, la visibilità e l’estetica. Cosa importante, oltre il 55% dei clienti avrebbe ricomprato la 1200, ma anche la 1500.

Era un’Italia, quella dei primi anni ’60, in cui in cima ai desideri c’erano l’automobile, la casa, i mobili e la televisione. La rincorsa al sogno, tuttavia, conosceva una forte battuta d’arresto. In un clima quasi d’austerità, all’inizio del ’64, il governo decideva l’aumento del prezzo della benzina e soprattutto un aggravio dell’imposta legata all’acquisto dell’auto. Le vendite iniziavano a scendere fin dal primo semestre con una forte accelerazione nei mesi seguenti. In dettaglio, il Maggiolino passava dai 42.218 modelli venduti nel ’63 ai 24.422 dell’anno successivo, mentre le immatricolazioni di vetture straniere scendevano del 5%.

Tutto questo mentre i lavori per la nuova sede Bonaldi in Via V Alpini continuavano senza sosta. A inizio ‘65, la concessionaria non è ancora terminata, ma già colpisce chi va a vederla. Luigi Ciocca, allora direttore della Banca provinciale lombarda e un nome che contava nel mondo del credito, ringrazia per la visita

«alla modernissima costruzione che è quanto di meglio sia stato finora realizzato nel campo delle autorimesse e servizi accessori».

Il 23 maggio, anniversario di nozze, è il grande giorno.

«L’inaugurazione me la ricordo come una cosa meravigliosa – sottolinea Kuen –, c’era gente con gli occhi fuori dalle orbite e qualche malcelata invidia».

Si tratta di una struttura molto avanzata secondo gli standard dell’epoca tanto che, in diverse occasioni, non mancano visitatori interessati provenienti da Wolfsburg. E l’architetto Roberto Spagnolo la definisce in questi termini:

«Un edificio di grande qualità architettonica, una specie di grande “vetrina” a scala territoriale i cui elementi compositivi, compresa la bellissima cabina Enel poi purtroppo demolita, finiscono per diventare il segnale iconico di una vera e propria porta urbana sul versante est». Ammirazione mista ad un certo scetticismo.

«I bergamaschi – sottolinea Brusa – non si capacitavano della scelta di Bonaldi di andare fuori dai confini della città».

E non del tutto convinto è anche Gerhard Richard Gumpert, fondatore e primo presidente della società Autogerma. Questo nome, Gumpert, si ritrova in modo significativo e a lungo nell’intreccio fra amicizia e rapporti professionali con Bonaldi ed è un personaggio abbastanza unico nel suo genere: giunto in Italia nel ’40 come segretario di legazione dell’ambasciata tedesca, si innamorò a tal punto dell’Italia e della sua gente da prodigarsi a favore della popolazione colpita dalla guerra, per poi stabilirsi definitivamente nel nostro Paese.

«Per lui – evidenzia Kuen – la nuova concessionaria Bonaldi era al tempo stesso un sogno e una preoccupazione. Sosteneva sempre che bisognava curare l’immagine per far risaltare la potenza che c’era dietro. Per questo Bergamo era un grande orgoglio».

Dall’altro lato, era chiaro che la battuta d’arresto del miracolo economico che si registrava inaspettatamente dal 1963 stava mettendo in discussione un investimento così importante. Le immobilizzazioni dell’azienda si aggiravano sui 365 milioni di lire con il conseguente aggravio di interessi, mentre l’attività richiedeva una liquidità importante.

«Ai tempi le macchine si pagavano in contanti anticipatamente e in Autogerma ci si chiedeva: ma avrà ancora i soldi per comparare le macchine?». La filosofia di Gumpert era molto semplice: «Se stanno bene i concessionari, stiamo bene anche noi».

Le perplessità non apparivano fuori luogo, confermate in qualche modo dai dati delle vendite trasmessi dalla stessa Bonaldi: dai 730 veicoli del ’64, si era passati ai 446 del ’65 e la caduta di sarebbe fermata ai 432 dell’anno seguente.

«Le cessioni si erano quasi dimezzate – sottolinea Brusa – con una sede pensata per venderne e gestirne il doppio, quindi un budget raddoppiato si era trovato a gestire un’attività commerciale ridotta di poco meno della metà e questo creava un certo rischio».

Ma perché così tante riserve? Qui siamo al “cuore” di tutto: dell’azienda così come la conosciamo oggi, dell’uomo sempre un passo avanti rispetto alle stesse urgenze del momento. Le prudenze ci stavano per almeno tre motivi: la non brillante congiuntura, lo stacco fra il volume di vendite e il robusto peso specifico dell’immobile (25 mila metri quadrati con i successivi ampliamenti, edifici su tre piani) e la stessa collocazione della sede. In una parola: quasi un azzardo, una specie di passo più lungo della gamba. Il tempo s’incaricherà di smentire queste preoccupazioni, non proprio marginali.

In realtà Bonaldi aveva intuito le potenzialità della dimensione provinciale, che in quello scorcio non era un concetto pacifico: il nuovo, il moderno tendeva a concentrarsi negli spazi cittadini, mentre il patron della Volkswagen era riuscito a trasformare in vantaggio competitivo lo storico squilibrio fra una piccola città e una grande provincia.

L’idea-guida di Lorenzo era quella di una pianta con tante radici: una concessionaria forte e ben organizzata dalla quale si dirama una rete di rivenditori autorizzati. Rivenditori ben distribuiti sul territorio che lavoravano per il Gruppo, una sinergia fortemente sostenuta da Bonaldi, che nel frattempo era riuscito a convincere la Casa madre a non smantellare la catena territoriale.

Parliamo di una realtà composta attualmente da una dozzina di punti vendita e di assistenza, sovente a carattere familiare, in grado di produrre il 30% delle vendite del Gruppo, numeri un po’ inferiori a quelli di partenza perché nel frattempo si erano aperti altri canali di offerta, ma pur sempre indicativi. Inoltre, la sede era stata concepita all’insegna dell’autosufficienza, una scelta dirompente per gli standard dell’epoca con il risultato di farne la più moderna d’Italia. C’era e c’è tutto quel che serve: carrozzeria, officina, reparto gomme, elettrauto, meccanico, gommista, carburatorista. Tutto racchiuso in un unico ambiente moderno. Pensate: persino un impianto centralizzato per la distribuzione dell’olio, che era in quel tempo in dotazione solo presso qualche officina in Germania.

Quelle descritte sono le parti decisive di un corpo vivo che ha giocato all’attacco, al servizio della clientela. E anche qui ritroviamo un ulteriore aspetto: l’aver saputo dosare continuità e innovazione in un “mercato a onde” e che, in un tracciato a tappe forzate, ha cambiato e ricambiato il proprio modo di porsi, passando attraverso formule che hanno avuto fortuna per poi eclissarsi e magari essere recuperate. Prima, per esempio, il modulo che i concessionari dovevano essere tanti, piccoli e familiari, poi quello opposto, pochi e grandi.

«È stata una costante nella nostra storia – chiarisce Brusa –, dato che non siamo mai stati solo un venditore d’auto o un riparatore. Noi, adesso come sempre, diamo l’auto nuova, facciamo assistenza a 360° gradi – gommista, elettrauto, carrozziere –, finanziamo l’acquisto e assicuriamo l’auto. È un po’ come il supermercato rispetto ai negozi di vicinato. L’azienda doveva essere grande, diceva sempre mio suocero, perché doveva offrire tutti i servizi necessari all’utente».

A sostenere l’impresa contribuiva anche il costante buon andamento del settore moto, rimasto in via Angelo Maj, ma fu soprattutto il sostegno che Autogerma decise di dare ai coniugi Bonaldi in quel periodo ad essere determinante per il consolidamento e lo sviluppo dell’azienda: infatti, i dirigenti di Bologna concedono di affiancare a Volkswagen il marchio Bmw. Una concessione importante visto che, tranne Milano e Varese, ora il concessionario si trovava a coprire tutta la Lombardia.

È il ’66, ma prima ancora l’azienda aveva deciso di contenere i costi, di chiudere la filiale di Treviglio e nel contempo di installare nella sede nuova un distributore di carburante. Anche la Casa madre tentava di contrastare la crisi con il lancio di nuovi modelli, come la 1200A, che costava 828 mila lire, ben 67 in meno della sorella 1200, e la 1660TL derivata dalla 1500 con l’aggiunta dei freni a disco Con il 1967 la situazione migliora, seppur lentamente. Le vendite di autoveicoli passano da 432 a 499, si lavora di più in officina e anche l’usato dà qualche risultato positivo. Il pericolo è scongiurato e Lorenzo può tornare a immaginare l’avvenire con fiducia.

La ripresa avviene in un mercato nazionale nel quale 3 nuove immatricolazioni su 4 sono Fiat (la quota è intanto salita quasi al 74%), mentre la Volkswagen ha poco meno del 2%. La Maggiolino 1200 si conferma tra i modelli stranieri più venduti. Nel 1966 era risultata terza, dopo la Opel Kadett e la Simca 1100. Alla clientela, pur con qualche restyling, il vecchio caro Maggiolino continua a piacere: ispira una simpatia controcorrente. Insidiato dalla Nsu Prinz (prima macchina straniera venduta in Italia nel ’68) e dalla Renault 4, se ne vendono complessivamente più di 11 mila. Perché lo compravano?

«Prima di tutto – risponde Evelino Rossoni –, perché era una macchina di qualità medio alta ed era molto robusta. Ai clienti dicevamo “non te ne disfi più”, oppure “se c’è la neve con questa a San Pellegrino ci arrivi, con la Fiat non si sa”».

Il finire del decennio porta diverse novità. L’Audi 60 attira l’attenzione del pubblico e ha buoni risultati di vendite, mentre nel settembre del ’69 viene presentata la prima Volkswagen Porsche, la 914 frutto di un accordo di collaborazione firmato 3 anni prima. Le straniere incon-trano sempre di più le richieste degli italiani.

Le immatricolazioni arrivano al 27% del totale, una crescita notevole se si pensa che il dato del’66 superava di poco il 10%. L’Italia era la patria delle basse cilindrate: un terzo abbondante delle nuove vetture era Fiat 500, ma l’ammiraglia torinese stava iniziando a perdere quote di mercato. La Volkswagen si attestava, nel 1970, all’1,35% e il modello più venduto rimaneva la 1200 (quasi 10 mila nello stesso anno) seguita dal 1300, 1600, 1700 e ultima (con 732 esemplari) la 1500. 

La Bonaldi, intanto, aveva ripreso la marcia ed era diventata un’azienda nota sul territorio e non solo. Lorenzo e Carla hanno attraversato momenti carichi di incertezza, ma sono rientrati in porto sani e salvi. Buone nuove anche in famiglia, che s’è allargata. Nell’ottobre del ’65 è nata Simona, la quintogenita.

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